Irpinia 1980
Trentanove anni fa la
tragedia del terremoto: quasi tremila vittime in quei 90 secondi in cui la
terra ha tremato
Le parole del Vescovo
di Avellino: “Bisogna ricostruire la comunità”. Significa che l’Italia ha
perso. Un’altra volta
di Anna
Beatrice d’Assergi
“Bisogna ricostruire la comunità”: così su Repubblica di ieri
il vescovo di Avellino monsignor Arturo Aiello, nel 39esimo anniversario del
grande sisma dell’Irpinia. Fu una tragedia epocale, quasi tremila vittime, 90 secondi di terrore, di dolore, che l’Italia non può dimenticare. Il pensiero di
ciascuno di noi, nelle scorse ore, è stato rivolto a quel popolo e a quel
dramma, a quelle case crollate, a quelle chiese cadute, a quelle persone che in
90 secondi hanno perso tutto, 39 anni fa.
Ma se 39 anni dopo il Vescovo di Avellino dice che “bisogna
ricostruire la comunità”, questo Paese ha davvero qualcosa che non va. Sono
passati quattro decenni, quasi mezzo secolo. E se in Irpinia il tessuto è ancora
sfaldato, significa che l’Italia ha perso per sempre.
E significa molto altro ancora: significa che il centro
Italia devastato dal sisma del 2016, se si va avanti così, non ha alcuna
speranza di tornare a vivere. Lì, ad Amatrice e nei territori circostanti, le
persone aspettano da oltre tre anni. Qualche gru, poche, pochissime, e basta.
Ancora macerie, e dove non ci sono le macerie c’è il vuoto, il nulla. Centro Italia raso al suolo, scomparso. Chi traccerà,
tra qualche secolo, la storia di questi tempi bui, disegnerà la cartina
geografica di uno Stivale bucato nel mezzo. Ieri un altro Vescovo ha parlato ad
un incontro dedicato alla comunicazione nel periodo emergenziale. Un Vescovo
che si chiama Domenico Pompili e che sta guidando da oltre tre anni un’intera
comunità che ha ferite profonde ancora aperte dopo il sisma del 24 agosto 2016.
Pompili ha detto moltissime cose, come sempre molto interessanti e di sicuro
impatto, sottili come lame. Ha fatto una riflessione tra l’altro su un concetto
chiave: queste terre non si possono certo ricostruire in cinque anni. Ce ne
vorranno dieci, forse di più. Quale compagine politica può durare tanto a
lungo? Ecco perché le classi politiche che si sono avvicendate in questi anni
(tre governi in tre anni, e anche tre commissari, e forse tra poco saranno quattro),
non sono state capaci di predisporre nulla di adeguato all’immensa ferita del
centro Italia. Ha detto anche, il
Vescovo di Rieti, che se c’è una “questione meridionale” e poi nella storia d’Italia
c’è stata anche una “questione settentrionale”, oggi di sicuro c’è una “questione
del centro Italia”. Insomma, il ragionamento di Pompili non fa una piega, e l’Irpinia
ne è un altro tragico, triste esempio. Se l’omologo avellinese di Pompili dice,
39 anni dopo il sisma, che “bisogna ricostruire la comunità, questo Paese ha un
problema grosso, con il quale prima o poi dovrà fare i conti. E saranno conti
salati.
Nel 1908 un altro grande terremoto sconvolse il Belpaese:
quello di Messina e Reggio Calabria. Alla metà degli anni Venti, Benito
Mussolini inviò i funzionari dello Stato a verificare le condizioni in cui
quelle persone vivevano, vent’anni dopo la tragedia. Trovarono baracche,
persone e famiglie intere in condizioni igienico-sanitarie penose, città ancora
spezzate. Poco o nulla era stato fatto in vent’anni. La storia che si ripete
significa una cosa: che quella storia non ha insegnato niente a chi ha avuto il
privilegio di conoscerla, di poterla osservare, studiare, capire. E, nel terzo
millennio, questo non è giustificabile in nessun modo.
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