LA
RETE E LE FAKE NEWS,
STORIA
DI QUESTO TEMPO
di
Anna
Beatrice d’Assergi
Il
più insidioso nemico della “notizia” è la “falsa notizia”. Non è un gioco di
parole, anche se potrebbe sembrarlo. È un controsenso, una contraddizione in
termini, questo sì, eppure è la verità.
La
rete, i suoi aspetti positivi e quelli negativi: questo il tema, e anche qui
c’è un controsenso. La rete è infatti un mezzo utile per far veicolare le
notizie, per diffondere le informazioni, e questo è uno dei fattori positivi;
ed è ugualmente un mezzo “utile” per diffondere quelle false, le cosiddette “fake
news”, e questo è uno dei fattori negativi. Ma non basta, occorre una
riflessione in più, se vogliamo parlare di “informazione”, di “comunicazione”,
che fino a prova contraria è qualcosa di pertinente a un ben preciso ordine
professionale, quello dei giornalisti. Che oggi un po’ tutti si sentano elevati
al rango di chi l’informazione la fa di mestiere non conta: i social continuano
in molti casi ad essere sfogatoi di frustrazioni più o meno profonde, tutt’altra
cosa dall’informazione professionale, che ha delle regole ben precise.
Già
questa breve considerazione, che è anche piuttosto banale a dire il vero,
dovrebbe permettere una riflessione: quando si legge una notizia, bisognerebbe
per prima cosa capire da dove proviene.
Una
testata giornalistica è cosa diversa da un social, è cosa diversa da un “sito”,
per esempio. Una testata giornalistica infatti viene registrata in un
Tribunale, ha un numero di registrazione, un direttore responsabile che – almeno
si spera – dovrebbe conoscere quasi a memoria le regole deontologiche della
professione. Purtroppo, spesso anche alle testate registrate e ai giornalisti iscritti
all’Ordine succede di sbagliare: accade anche a loro, infatti, di leggere una
notizia – per esempio – su un social, che magari proviene da una fonte che
ritengono attendibile, e di riprenderla senza prendersi la briga di
verificarla. Un po’ di pigrizia c’è anche tra i cronisti, non si può negare.
Pigrizia, perché oggi, proprio grazie alla rete, è piuttosto semplice verificare.
Spesso basta un click, con un semplice telefonino è sufficiente connettersi e
chiedere a internet, spendere qualche minuto del proprio tempo per leggere,
capire, e poi definire con esattezza la veridicità o meno della notizia in
questione. E se internet non ci può aiutare, due sono le cose da fare: o ci si dà
da fare e ci si reca di persona a verificare, oppure meglio non scrivere nulla.
Meglio “bucare” che diffondere una notizia falsa, non c’è dubbio.
Sugli
influssi negativi della rete sono in corso studi approfonditi su diversi
fronti: quello psicologico e quello antropologico, oltre che naturalmente
quello tecnico. Si parla di “cultura di massa”, di “Mc World”, di
imbarbarimento in un certo senso, di massificazione del pensiero. E allora bisognerebbe
chiedersi se l’essere umano, inteso nella sua accezione di insieme, come massa,
come popolo, ma anche come singolo che si rapporta con altri singoli, meriti o
meno di essere considerato “massificato”. I social ci hanno dato la sensazione
di avere un palcoscenico da cui fare comizi ogni volta che vogliamo, hanno
acceso le telecamere e i riflettori davanti alle nostre facce e noi, sotto quei
riflettori, ci sentiamo protagonisti ogni volta che scriviamo, o che pubblichiamo
una foto, un video, un pensiero. Lo facciamo a volte con un una frequenza
ossessiva, riempiamo le nostre bacheche (e spesso anche quelle altrui) con
mucchi di parole e immagini, riduciamo la vita privata a un palcoscenico dove
mettere in scena gli umori, i pensieri, odi e amori, sentimenti belli e brutti.
È il nostro tempo, ed è anche umano e normale in fondo: le distanze si sono
accorciate, per conoscersi da un capo all’altro del globo terrestre basta un
click, ci si vuole bene, spesso, anche se non ci si è mai abbracciati di
persona, oppure ci si odia, o ci si combatte a vicenda, anche se non ci si è
mai guardati negli occhi dal vivo. È la società del terzo millennio,
probabilmente non c’è proprio niente di male. Ma diffondere notizie false
invece sì, che è male.
È male
diffondere fake news, e vale per tutti. Ma vale specialmente per chi dell’informazione
ha fatto una professione. Per più di una ragione, ma soprattutto perché se
scrivi cose non vere diventi del tutto inaffidabile. Non ti crederà più
nessuno, nemmeno quando dirai la verità. La gente si chiederà se hai diffuso il
falso per superficialità o con dolo, ma in un caso come nell’altro sarai inaffidabile.
È il prezzo da pagare per chi mente. Chi invece non mente paga un altro prezzo:
quello del lavoro di verifica, quello della corretta interpretazione di ciò che
legge, quello di perdere del tempo che potrebbe dedicare ad altro. In cambio
però avrà la stima e il rispetto di chi legge, e sarà sempre considerato
affidabile; probabilmente, anche in questo tempo di “massificazione”, sarà
quest’ultimo a fare la differenza. E di certo, aspetto di non poco conto, quest’ultimo
non corre alcun rischio di essere querelato. La penna è un’arma formidabile, ma
dobbiamo usarla bene
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