3.11.19

LA RETE E LE FAKE NEWS,
STORIA DI QUESTO TEMPO



di Anna Beatrice d’Assergi

Il più insidioso nemico della “notizia” è la “falsa notizia”. Non è un gioco di parole, anche se potrebbe sembrarlo. È un controsenso, una contraddizione in termini, questo sì, eppure è la verità.
La rete, i suoi aspetti positivi e quelli negativi: questo il tema, e anche qui c’è un controsenso. La rete è infatti un mezzo utile per far veicolare le notizie, per diffondere le informazioni, e questo è uno dei fattori positivi; ed è ugualmente un mezzo “utile” per diffondere quelle false, le cosiddette “fake news”, e questo è uno dei fattori negativi. Ma non basta, occorre una riflessione in più, se vogliamo parlare di “informazione”, di “comunicazione”, che fino a prova contraria è qualcosa di pertinente a un ben preciso ordine professionale, quello dei giornalisti. Che oggi un po’ tutti si sentano elevati al rango di chi l’informazione la fa di mestiere non conta: i social continuano in molti casi ad essere sfogatoi di frustrazioni più o meno profonde, tutt’altra cosa dall’informazione professionale, che ha delle regole ben precise.
Già questa breve considerazione, che è anche piuttosto banale a dire il vero, dovrebbe permettere una riflessione: quando si legge una notizia, bisognerebbe per prima cosa capire da dove proviene.
Una testata giornalistica è cosa diversa da un social, è cosa diversa da un “sito”, per esempio. Una testata giornalistica infatti viene registrata in un Tribunale, ha un numero di registrazione, un direttore responsabile che – almeno si spera – dovrebbe conoscere quasi a memoria le regole deontologiche della professione. Purtroppo, spesso anche alle testate registrate e ai giornalisti iscritti all’Ordine succede di sbagliare: accade anche a loro, infatti, di leggere una notizia – per esempio – su un social, che magari proviene da una fonte che ritengono attendibile, e di riprenderla senza prendersi la briga di verificarla. Un po’ di pigrizia c’è anche tra i cronisti, non si può negare. Pigrizia, perché oggi, proprio grazie alla rete, è piuttosto semplice verificare. Spesso basta un click, con un semplice telefonino è sufficiente connettersi e chiedere a internet, spendere qualche minuto del proprio tempo per leggere, capire, e poi definire con esattezza la veridicità o meno della notizia in questione. E se internet non ci può aiutare, due sono le cose da fare: o ci si dà da fare e ci si reca di persona a verificare, oppure meglio non scrivere nulla. Meglio “bucare” che diffondere una notizia falsa, non c’è dubbio.
Sugli influssi negativi della rete sono in corso studi approfonditi su diversi fronti: quello psicologico e quello antropologico, oltre che naturalmente quello tecnico. Si parla di “cultura di massa”, di “Mc World”, di imbarbarimento in un certo senso, di massificazione del pensiero. E allora bisognerebbe chiedersi se l’essere umano, inteso nella sua accezione di insieme, come massa, come popolo, ma anche come singolo che si rapporta con altri singoli, meriti o meno di essere considerato “massificato”. I social ci hanno dato la sensazione di avere un palcoscenico da cui fare comizi ogni volta che vogliamo, hanno acceso le telecamere e i riflettori davanti alle nostre facce e noi, sotto quei riflettori, ci sentiamo protagonisti ogni volta che scriviamo, o che pubblichiamo una foto, un video, un pensiero. Lo facciamo a volte con un una frequenza ossessiva, riempiamo le nostre bacheche (e spesso anche quelle altrui) con mucchi di parole e immagini, riduciamo la vita privata a un palcoscenico dove mettere in scena gli umori, i pensieri, odi e amori, sentimenti belli e brutti. È il nostro tempo, ed è anche umano e normale in fondo: le distanze si sono accorciate, per conoscersi da un capo all’altro del globo terrestre basta un click, ci si vuole bene, spesso, anche se non ci si è mai abbracciati di persona, oppure ci si odia, o ci si combatte a vicenda, anche se non ci si è mai guardati negli occhi dal vivo. È la società del terzo millennio, probabilmente non c’è proprio niente di male. Ma diffondere notizie false invece sì, che è male.
È male diffondere fake news, e vale per tutti. Ma vale specialmente per chi dell’informazione ha fatto una professione. Per più di una ragione, ma soprattutto perché se scrivi cose non vere diventi del tutto inaffidabile. Non ti crederà più nessuno, nemmeno quando dirai la verità. La gente si chiederà se hai diffuso il falso per superficialità o con dolo, ma in un caso come nell’altro sarai inaffidabile. È il prezzo da pagare per chi mente. Chi invece non mente paga un altro prezzo: quello del lavoro di verifica, quello della corretta interpretazione di ciò che legge, quello di perdere del tempo che potrebbe dedicare ad altro. In cambio però avrà la stima e il rispetto di chi legge, e sarà sempre considerato affidabile; probabilmente, anche in questo tempo di “massificazione”, sarà quest’ultimo a fare la differenza. E di certo, aspetto di non poco conto, quest’ultimo non corre alcun rischio di essere querelato. La penna è un’arma formidabile, ma dobbiamo usarla bene

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